Leggo un avvincente racconto di Tolstoj, un racconto che gronda di aggettivi, descrizioni, periodi lunghi che esplorano dettagli; forme che possono affaticare un lettore poco attento, eppure i suoi personaggi restano piantati sulla pagina come alberi, unici, radicati dentro il loro tempo. A me fanno venire desiderio di espiantarli e trasferirli nel mio giardino.
Da lettore ho più capacità di affezionarmi a degli sconosciuti di quanta ne abbia nella vita. Del resto la vita non si preoccupa mica di presentarmi così nei dettagli gli sconosciuti? Dev’essere questo il motivo per cui leggo. Allargo l’ambito di persone da osservare con la massima sfacciataggine, senza la fatica di dover chiedere. Il lettore è un impiccione autorizzato. La sua giustificazione è che in quei momenti è solo. La solitudine gli è da attenuante.
Tolstoj offre generosamente la sua capacità di osservatore gli altri: le sue storie sono precisissimi ritratti d’umanità.
Si ripete in mezzo all’inverno la fioritura della camelie che ho piantato sul campo. Contro il grigio di un giorno uggioso squilla il loro rosa intenso a sovrapporsi.
Associo le camelie a Tolstoj per questo effetto di deporsi sopra, a contrasto, a conforto.
Lo ammiro come ammiro la fioritura. Le sua pagine si stendono sopra l’inverno del lettore, gli placano le urgenze, gli colorano l’anima nei giorni cupi.
Si esce da un suo racconto meglio disposti, come dopo essersi rinfrescati gli occhi col rosa di camelie.
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