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È soltanto un riposo del vento…


Disamistade parla dell’uomo in comunità, in comunità molto stretta, tanto che direi che vive in luoghi dove ci si pestano i piedi. Può essere un piccolissimo paese che però ha il vantaggio di essere circondato dalla natura, dalla campagna; può essere soprattutto un quartiere cittadino di un’intera città dove l’uomo, vivendo a contatto di gomito con il suo simile, lo spia, lo osserva. Il tempo corre, spariglia i destini e le fortune, l’uomo non può fare a meno di guardare il suo simile, di osservarlo, e nel momento stesso in cui il suo simile riesce ad avere più fortuna di lui, non può farne a meno, gli nasce un sentimento che è comune a tutti noi, che è quello dell’invidia. Dall’invidia nasce quella che voi chiamate con un termine bellissimo, un fonema meraviglioso da pronunciare e che corrisponde a una cosa molto brutta: disamistade. È abbastanza curioso come la disamistade, la faida, brutta parola “faida” è piena di “a”, di “i”, e ancora di “a”, è piena di iati, è molto più bella disamistade – credo addirittura che “faida” sia una parola importata dal germanico… Be’, la faida si propone due scopi abbastanza curiosi, tutti e due paradossali. Si propone lo scopo di riportare il tempo alle proprie origini, alle sue origini, come se il tempo ridiventasse immobile, tutto dovesse ricominciare da capo, tutti gli uomini fossero uguali. Un altro obiettivo ha la disamistade, che è quello di uccidere l’ultimo assassino… è quasi impossibile, direi che è assolutamente impossibile. Ci pensò un gruppo di giovani ragazzi che facevano politica in Russia sotto lo zarismo nel 1905. Si chiamavano nichilisti. Il termine nichilismo, come il termine anarchia d’altra parte, sono considerati orribili. In effetti, era un movimento altamente spirituale. Loro interrompevano il cerchio della catena dei delitti suicidandosi dopo avere commesso il delitto. Si ponevano due domande, si chiedevano: è necessario uccidere? Si rispondevano di sì. È necessario uccidere le persone che affamano i propri simili, che li strappano dalle loro famiglie, che li considerano facenti parte delle terre che vendono? Si ponevano un’altra domanda: è giustificabile uccidere? E si rispondevano di no. Come conciliare questo no e questo sì? Dopo aver ucciso la persona in questione, loro si consegnavano direttamente a quella che allora si chiamava Ochrana, la polizia politica, che regolarmente li uccideva; oppure si suicidavano.

La canzone si chiama Disamistade e non ha niente a che vedere con le faide sarde, perché lo spunto mi è stato dato da un oscuro libro, di quelli che si trovano in quelle vecchie librerie ancora gestite da librai veri, e questo libro si chiamava, e si chiama ancora anche se è molto raro, Faide e parentele nella Liguria dell’Ottocento, quindi è presa da una faida ligure.»

[Fabrizio de André, da Anche le parole sono nomadi]

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