Nun t’arraggià quando juoche, numquam ruere in ludendo – avrebbero tradotto gli antichi. Questo lo sentivo dire al circolo in piazza, da piccolo, quando spettatore di una mano di tressette o scopone, guardavo le prodezze di gioco di un amico del nonno, incallito giocatore di carte – l’amico, non il nonno.
Ho visto giocare alla perfezione dei vecchi così pieni di acciacchi da non poter stare in piedi. Ma da seduti erano meravigliosi, non sbagliavano una carta e sapevano perdere e pagare un giro di caffè senza caricare una ruga. Sapevano stare al gioco.
Accetta il consiglio di quel vecchio giocatore e se perdi, nun t’arraggià. Da arrabbiati si gioca peggio. E poi non è colpa della sfortuna. È più sicuro che tu abbia giocato male o, se preferisci, gli altri meglio. Se accetti questo, sei già un passo avanti a certe personalità politiche e non, che nel momento della sconfitta se la prendono con i complotti e le manovre. Non ammettono di essere stati dei brocchi.
Molta buona educazione e contegno nei rovesci sta nell’aver imparato in tempo a perdere al gioco, a incassare la sconfitta. A molta infanzia d’oggi, istruita dagli schermi luminosi, sarebbe utile un po’ di dimestichezza con la varietà delle combinazioni di carte, dove tra il vincere e il perdere la differenza è un soffio.
La scoperta dell’inferiorità serve a decidere di sé.
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