Sostiene Di Maio (che non è affatto Pereira): “La notizia in un paese normale è che M5S ha restituito 23 milioni e 100mila euro di stipendi e questo è certificato da tutti quanti e ci sono 7mila imprese in Italia che lo testimoniano perché quei soldi hanno fatto partire 7mila imprese e 14mila posti di lavoro. Se ci saranno controlli da fare li stiamo facendo, ringrazio chi ha fatto queste inchieste ma questo è un paese strano in cui restituisci 23,1 milioni e la notizia è che manca lo 0.1”.
Ora, vi sembrerà strano, ma la dichiarazione è figlia di una lunghissima tradizione costruita e usata più e più volte dalla viscida kasta® sui piccoli e grandi fallimenti del potere. Tecnicamente è detta “doppio standard” (wikipedia o la cara enciclopedia impolverata può essere utile per i dettagli) ed è una delle categorie etiche più studiate in politica: “consiste nell’applicazione – copio/incollo da Wikipedia – di principi di giudizio diversi per situazioni simili, o nei confronti di persone diverse che si trovino nella stessa situazione”. Il doppio standard è solitamente riconducibile al potere regnante, lo stato, le classi abbienti, le gerarchie ecclesiastiche (nello specifico, poi, diviene “doppia morale”): è il potere che – pago del suo cinismo – perdona a se stesso quello che non perdona ad altri.
Purtroppo, tutte le rivoluzioni di epoca moderna – dalla Rivoluzione Francese in poi, diciamo – hanno fatto gran (ab)uso di questo strumento, perdonando a se stesse i peccati che non riuscivano a perdonare al potere che volevano rovesciare, facendo leva sul fatto che essendo ora loro al potere avrebbero, sicuramente, portato giustizia nel mondo.
E – tanto per spararsi la posa con le dotte citazioni storiche – Maximilien de Robespierre (quello di «La libertà consiste nell’obbedire alle leggi che ci si è date e la servitù nell’essere costretti a sottomettersi ad una volontà estranea»), all’inizio della sua opera rivoluzionaria chiese, tra le altre cose, l’abolizione della pena di morte: «La pena di morte è necessaria, dicono i partigiani degli antichi barbari usi; senza di essa non ci sono freni abbastanza potenti contro i delitti. Chi ve lo ha detto? Avete calcolato tutte le specie di mezzi con i quali le leggi penali possono agire sulla sensibilità umana? (…) Le pene non sono fatte per tormentare i colpevoli; ma per impedire il delitto, il quale teme appunto di incorrere nelle pene. (…) Si è osservato che nei paesi liberi i delitti erano più rari, perché le leggi penali eran più dolci. I paesi liberi sono quelli nei quali i diritti dell’uomo sono rispettati, e dove di conseguenza le leggi sono giuste. Dappertutto dove esse offendono l’umanità con un eccesso di rigore, si ha la prova che la dignità dell’uomo non è conosciuta, che quella del cittadino non esiste; si ha la prova che il legislatore non è che un padrone che comanda a degli schiavi, e che li colpisce spietatamente seguendo la sua fantasia. Io concludo perché la pena di morte sia abrogata.» (Discorso all’Assemblea Costituente del 30 maggio 1791)
Poco dopo diede il via al Terrore in nome della difesa della rivoluzione da chi voleva sabotarla: «Sì, la pena di morte in generale è un delitto e ciò per l’unica ragione che essa non può essere giustificata in base ai princìpi indistruttibili della natura, salvo il caso in cui sia necessaria alla sicurezza degli individui o del corpo sociale. […] Ma quando si tratta di un re detronizzato nel cuore di una rivoluzione tutt’altro che consolidata dalle leggi, di un re il cui solo nome attira la piaga della guerra sulla nazione agitata, né la prigione, né l’esilio, possono rendere la sua esistenza indifferente alla felicità pubblica, e questa crudele eccezione alle leggi ordinarie che la giustizia ammette può essere imputata soltanto alla natura dei suoi delitti. Io pronuncio con rincrescimento questa fatale verità. Io vi propongo di decidere seduta stante la sorte di Luigi. Per lui, io chiedo che la Convenzione lo dichiari da questo momento traditore della nazione francese e criminale verso l’umanità. » (Discorso del 3 dicembre 1792.)
Il numero delle vittime causate dal periodo del Terrore è, dicono gli storici, quantificabile con difficoltà. C’è chi ne conta 16.594 e chi 70.000, prevalentemente appartenenti alla media borghesia. Altri ancora parlano, con le approssimazioni del caso, di circa 35.000 esecuzioni, delle quali ben 12.000 senza processo. La metodica cancellazione di ogni forma di dissenso fu eseguita anche mediante l’incarcerazione di circa 100.000 persone, alcuni studiosi arrivano addirittura a stimarne 300.000, soltanto perché sospettate di attività controrivoluzionaria.
Il doppio standard rivoluzionario lo abbiamo visto al lavoro da allora, in modo più o meno subdolo, in maniera più o meno cruenta, in tanti accidenti e fallimenti della nostra storia. Sui diritti civili e umani, sulla equità sociale, sulla giustizia delle classi sociale, dalle grandi rivoluzioni, la Russa, quella Cinese, a quelle piccole ma non meno rilevanti per la formazione della nostra coscienza pubblica, quelle di Cuba, il Vietnam, Iran, i vari governi africani della decolonizzazione etc. etc. etc.
Curiosamente, la difesa di questi fallimenti ha sempre preteso la doppia stampella argomentativa: a fronte delle grandi cose fatte, i nemici guardano solo ai piccoli errori; e, a mo’ di corollario alla prima argomentazione, gli sbagli sono stati sempre fatti dalle famigerate “mele marce”, casi isolati e facilmente identificabili in un cesto pieno di mele sane. Il sistema è dunque sempre sano, e la colpa è sempre di un doppio standard del potere, usato in maniera aggressiva contro la rivoluzione. Operazione, ça va sans dire, quasi sempre portata avanti dalla stampa, accusata di essere “serva del potere” di qualunque colore sia il potere regnante in quel momento.
Ora, per tornare dalle grandi storie alle misere piccolezze dei giorni nostri, ci sono pochi dubbi che l’eco di questo storico dibattito permea (a sua insaputa) le affermazioni del Giggino pentastellato e di tutti i suoi compagni di partito (e di camper) che da anni denunciano di essere vittime di un complotto di potere strabico, che finge di non vedere i grandi errori del sistema, mentre colpevolizza e gonfia a dismisura ogni piccolo errore del M5S. Eppure, dovrebbe essere chiaro che, per chi ha fatto della bandiera dell’etica in politica il suo fiero vessillo di diversità rispetto agli altri partiti, anche un solo errore – uno solo, dico – su questo scivoloso campo di battaglia non può essere tollerato. Le piccole furbate indignano e danno una misura degli uomini, ma se non si è capaci di uscire dagli stereotipi dell’indignazione e del discredito (ché a far a gara con i puri — lo diceva Nenni — uno più puro lo si trova sempre), se non si è capaci di mostrare altro che una presunta diversità fondata sul pilastro dell’onestà (inteso come unico valore: condizione necessaria e sufficiente per poter esser degni di governare il paese) una classe politica seria e all’altezza dei compiti non la si riuscirà mai a formare.
Per finire, è inutile che ricordi – l’attento lettore che ha avuto la pazienza di seguire il mio ragionamento fin qui ben lo saprà – che Robespierre finì ucciso dallo stesso meccanismo del Terrore che gli si ribaltò contro. La stessa sorte toccò anche ai suoi seguaci. Ma questa chiosa, mi par chiaro, è solo una metafora.
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