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Chissà…

 

Chissà come si svolge concretamente l’attività di un revisionista neofascista dei giorni nostri. Chissà dove si dà appuntamento coi colleghi di studio e con quali parole. E in quale locale mangia prima di dedicarsi al suo hobby di appassionato divulgatore. Chissà se esiste una qualche forma di destrezza o, come si dice oggi, di professionalità, se è considerata prioritaria la lettura dei documenti del tempo o, chessò, l’analisi attenta e ragionata del pensiero dei contemporanei. Se inizia lo studio “matto e disperatissimo” prima o dopo un qualche dibattito. Chissà…
Ultimo gradino nella pur lunga scala della vigliaccheria, il revisionista neofascista avrà pure una casa, una famiglia, un banco di scuola o un luogo di lavoro. Un suo habitat dove sentirsi serenamente sciacallo. Forse ne conosciamo uno, lo salutiamo mentre esce di casa la sera, prima della discoteca o la birreria, o durante le ore di lavoro.
Ogni volta che vedo uno di quei documentari sui campi di sterminio, la cosa che mi sembra più atroce non sono le immagini dei forni e delle cataste dei morti – chissà, forse perché col tempo certe immagini non hanno più il potere di incidere profondamente nella coscienza. Sono le casette dei vili villaggi intorno, fiorite, pulite, dove mamma pulisce l’insalata e babbo fuma beato la pipa.

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