Quella del testo che si finge ritrovato è una delle costruzioni letterarie che, peggio di un tarlo succhiello, mi ha sempre dato da pensare. L’autore – ché di questo si tratta – presenta il suo come un testo non suo, o quanto meno, derivato da un testo non propriamente scritto da lui. È una finzione combinata, aggravata il più delle volte – non sempre, ma quasi sempre – dall’essere una finzione rozzamente costruita. Finge l’autore – non sempre, ma quasi sempre – d’aver avuto un testo scritto da uno sconosciuto, che ovviamente risulta a tutti sconosciuto per davvero (e grazie al cazzo, verrebbe da chiosare). E finge – non sempre, ma quasi sempre – d’essere venuto in possesso di quel testo in modo accidentale, fortuito. Finge – non sempre, ma quasi sempre – di averlo corretto, tradotto, snellito, ripulito, giurando sul suo onore di non avervi apportata alcuna modifica nell’ossatura, se non, appunto, nella sola forma che – non sempre, ma quasi sempre – è anche sostanza.
Chissà se, con questo, sarò riuscito a chiarire la natura del mio da pensare sulla costruzione letteraria del testo che si finge ritrovato. Penso – e dico il primo che viene in mente – al Manzoni de I Promessi Sposi: lo “scartafaccio” “dilavato e graffiato autografo” dell’anonimo “buon secentista” che l’autore prova a trascrivere fino ad “accidenti”, così almeno finge Manzoni. Ecco: a che serve – esattamente – questa finzione? A quale effetto mira? È — chiedo — una riserva con la quale l’autore sembra voler rinunciare a oneri e onori? Ma, in tal caso, è una rinuncia che non può reggere, e infatti sembra costruita proprio per non reggere. L’evidenza della finzione, non a caso, spesso resa da una disarmante inverosimiglianza di dettagli relativi al ritrovamento del testo o comunque dall’abuso che se n’è fatto della finzione letteraria in quanto tale, è – non sempre, ma quasi sempre – la regola. E allora: perché questa finzione?
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