Quella foto, il bimbo morto sulla battigia di una spiaggia turca, il volto adagiato sulla sabbia, la maglia rossa, il braccio lungo il corpo… beh, sì, quella foto lì, che tanto sta facendo discutere, è un fatto. Non un’immagine. Non descrive, come accade per le fotografie in genere, un ritaglio del mondo, lo sguardo del fotografo, il suo punto di vista; non c’è un resto che viene lasciato fuori, non ha da essere interpretata, calata nel contesto. No. Quella foto è la brutale descrizione della realtà. È un fatto, appunto: è la cosa in sé.
Piuttosto, lo scandalo – se scandalo si vuole vedere a forza – non è nella foto in quanto tale, ma nella storia che racconta nel suo tragico (e triste) epilogo. Quel piccolo profugo – Aylan, dicono le cronache si chiamasse – era un curdo, scappava da una città siriana di confine martoriata da fanatici tagliateste e difesa da pochi e coraggiosi combattenti. Lì, in quella zona, altri bambini (troppi, purtroppo) sono in attesa di scappare e alta è la probabilità per loro di finire tragicamente i loro giorni come Aylan. Domando: quanto deve durare ancora tutto questo? quanti bimbi ancora dovremo vedere in quelle condizioni? quanto occorre ancora aspettare per agire con la violenza – sì, con la violenza –, a spazzar via quei fottuti tagliateste?
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