Era già scritto tutto in una newsletter dello zotico che presiede il Consiglio dei Ministri di questo sciagurato Paese. Le agenzie di stampa ne avevano, giustamente, estratto l’essenziale nell’affermazione che «le assunzioni hanno senso solo se cambiamo la scuola». Il legame, il doppio filo, cui era legata la riforma della scuola e il regolarizzare la precaria condizione di 100’701 insegnanti precari era tutto lì: assumo i precari solo se passa la riforma per una «diversa organizzazione» della scuola (condizione necessaria); ovvero, se preferite: se non si fa come dice Matteo Renzi i precari potrebbero rimanere precari, senza alcun problema, né per loro, né per la scuola in generale. Ma – chiedo – non era la precarietà di questi lavoratori, operanti già all’interno della scuola, a essere di fatto “il” problema per sé stessi e per la scuola in generale a prescindere dalla struttura organizzativa che questa veniva ad assumere? Non c’era stato detto a più riprese e in più modi che non è lecito tenere in condizioni di precarietà degli insegnati che in molti casi sono impiegati da decenni a far fronte alle esigenze di un’istituzione pubblica?
Retorica a parte, al netto di tutto, il ricatto – e chiamiamo le cose col loro nome, cazzo! – il ricatto, dicevo, delle assunzioni che veniva legato indissolubilmente all’approvazione della riforma mostrava e mostra, mi pare lampante, la natura strumentale del nesso di necessità stesso e assume anzi la valenza di vera e propria offesa sia, soprattutto, perché offende l’intelligenza sia perché dà ad intendere, in ultima analisi, che assumere stabilmente a libro paga quei lavoratori comunque sarebbe come beneficarli di un «ammortizzatore sociale».
Il Jobs act; l’abolizione dell’articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori; lo Sblocca Italia; la riforma della pubblica amministrazione; le riforme costituzionali; la riforma della scuola in chiave autoritaria e gerarchica che, sia detto per inciso, in realtà non dà alcuna autonomia a quanti a vario titolo sono attori del processo educativo, limitandosi a piramidalizzarne le competenze in una logica che risponde alle esigenze di un vero e proprio mestierificio… ecco, dicevo, quest’elenco corposo di azioni intraprese, a testa bassa, contro (quasi) tutti rischiando financo una spaccatura interna e una sublimazione dei voti del partito, stanno lì a delineare l’ideologia della deregulation, della privatizzazione, della liberalizzazione selvaggia, della cancellazione dei diritti dei lavoratori e delle tutele dei cittadini, imposti – e qui ci sarebbe da ragionar un bel po’ – dall’Europa e realizzati da questo Parlamento-supino su mandato di questo Governo-sicario.
C’è da stupirsene? Non direi. Era nelle corde del puparo che s’era scelto per portare a termine il lavoro che s’è poi fatto: il demagogo era stato piazzato lì proprio per condurre in porto un’azione di tale portata. Chiaro: demagogia è parola forte, porta con sé – tra l’altro – i concetti di opportunismo e tradimento: il demagogo – per definizione, direi – è anche colui che inganna. Renzi demagogo e dunque opportunista e ingannatore: un attento lettore del Principe, verrebbe da dire. Testardo e capace di tutto — mica come quello sfessato di Enrico Letta?! Tanto per dire – e qui chiudo – si tratta di quello che, da Sindaco di Firenze, avrebbe voluto sfregiare l’orologio a lancetta unica della Torre d’Arnolfo, aggiungendoci quella dei minuti. «La gente – diceva – deve vedere bene l’ora, mica deve essere un orologio filosofico». E a chi gli faceva presente che quell’orologio era del Trecento e andava rivisto l’intero meccanismo interno per apportare le modifiche, rispondeva di botto: «Mica voglio metterci un orologio al quarzo – rassicurava – è che così ’un funziona mica!». Ecco. Queste erano le premesse, tutto era già scritto. Piaccia o no, lo zotico che presiede il Consiglio dei ministri è (anche) questo.