Come i peperoni, il dibattito si ripropone, ha una sua intrinseca ciclicità specie — ça va sans dire — in periodo pre- e post- elettorale. Tema: il ruolo politico della televisione; sottotitolo: occupare gli schermi davvero significa ottenere un’influenza decisiva sull’opinione pubblica?
A sentir gli argomenti di chi si sente estromesso dal mezzo di comunicazione, verrebbe da rispondere subito con uno schietto ‘sì’ al quesito proposto. Ma la risposta sarebbe — spero ne converrete — un riflesso condizionato più che un ragionare ancorato sui dati.
Proviamo, per quanto possiamo, ad abbozzar un pensiero attraverso quello che il fisico danese Hans Christian Ørsted definiva un gedankenexperiment — esperimento mentale.
Siamo nel Tremila. Con noi è un illustre storico che sta provando, poveretto, a sintetizzare la storia a noi (sue cavie) più prossima. Osserva lo storico. Negli anni cinquanta, e per buona parte dei sessanta, i dettami seguiti della televisione in Italia erano quelli democristiani. Sul piano della morale — sono sempre le considerazioni dell’amico storico — la televisione virava decisamente verso il bigotto: era attenta a non mostrare nudità perturbanti, calzamaglie coprivano voluttuose cosce; i servizi religiosi erano oculatamente diluiti lungo tutto il palinsesto televisivo; i personaggi positivi avevano tutti i capelli corti, cravatta e modi gentili. Risultato: di lì a poco sarebbe esplosa la generazione del Sessantotto: capelli lunghi, libera convivenza sessuale, lotte per divorzio e aborto, odio per il sistema, anticlericalismo…
Poi — continua ad osservare lo storico — è arrivata la televisione lottizzata: sul piano del costume, a poco a poco, è giunta a mostrare i seni nudi (e a tarda notte anche altre parti più intimamente segrete), ha dato spettacolo di spregiudicatezza, sarcasmo, rissosità, scarso rispetto per le istituzioni. E su questo piano del costume ha prodotto una generazione che a poco a poco è rientrata nei valori religiosi, e pratica il sesso con prudenza. Sul piano politico ha inculcato, sia pure dividendosi su tre canali che si volevano ideologicamente diversi, il rispetto per una classe politica che si mostrava in video ogni qual volta poteva e riaffermava, con l’invadenza della propria immagine, il proprio potere e (presuntivamente) la propria popolarità. Risultato? Una parte dei cittadini si è ribellata autonomamente a questa classe politica attraverso l’opzione anticasta (o fintamente tale); tutti gli altri, non appena si è aperta una falla nel sistema, non hanno atteso un momento per salutare nei magistrati, nei comici o negli arruffapopoli di ogni specie i propri giustizieri, e hanno incominciato a tirare duomi e uova marce (non solo per metafora) a quei politici che vedevano in video, non appena ora li scorgono per strada. Il nostro storico del Tremila potrebbe persino trarre l’avventata conclusione che una televisione democristiana ha prodotto il più massiccio avanzare di un Partito comunista mai verificatosi in Europa occidentale, mentre il graduale accesso dei comunisti al controllo dei canali ne ha provocato la recessione. Se il nostro storico vivrà in un’epoca di religiosità spinta e sentita, ne concluderà che la televisione era l’Impero del Male per chi cercasse di piegarne, a proprio uso, i poteri persuasivi o, più semplicemente, che quel medium portava una sfiga pazzesca a chiunque si affacciasse dai teleschermi. Se avrà invece disposizioni al ragionamento analitico e alla formulazione di ipotesi scientifiche dirà che questo mezzo invadente potrà forse aver sensibilmente influenzato il modo di pensare della gente sul piano dei consumi, ma non certo su quello delle passioni e decisioni politiche. Si chiederà allora costernato come mai per il possesso di questo mezzo si fossero scatenate tante lotte, e ne concluderà che gli uomini del nostro secolo non capivano un cazzo di comunicazione massmediale.
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