Odio le campagne elettorali. Chi a destra, chi a manca — e quelli poi sparsi un po’ qua e un po’ là — peggiorano tutti, vistosamente, senza quasi eccezione alcuna, più o meno un po’ tutti. Più so’ pesci piccoli e più puzzano, anche se pure quelli grossi danno il loro contributo nauseabondo. E sì che comprendo la necessità dell’affannarsi, del distinguersi smarcandosi dall’avversario, del marcare il territorio ma… nulla, io proprio non lo tollero. O meglio: lo tollero (e che fare altrimenti?), ma con enorme sofferenza. Oh, ben inteso, so anch’io che polis e polemos si contendono la stessa radice, ma all’abbrutimento del concetto in slogan — certuni, poi, invero assai banali e scontati — io, in cuor mio, ne soffro assai. Primum vivere, è ovvio, e in politica chi non vince, perde; voler vincere è l’anima stessa della competizione elettorale e, in democrazia, poi, dove vige quella spietata regola che vuole un voto per ciascuno e ciascuno è un voto, si cerca di soffiarne il più possibile all’avversario, in ogni modo. Se tutte queste cose, allora, mi sono note, perché soffro? Soffro perché, da una parte e dall’altra, vedo imbruttirsi i miei amici (ne ho di qua e di là, come di qua e di là coltivo qualche antipatia). Anche quelli prima miti e assai cortesi, e, per mero calcolo utilitaristico, accade sempre in ogni campagna elettorale, sono come piegati ad un dovere, un rispondere a ordini di scuderia di cui quasi sempre si pentono dopo, che abbiano vinto o abbiano perso col loro rispettivo schieramento: il dovere, più che necessità, di farsi insensibili e impermeabili alle buone ragioni dell’altro.
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