Diciamola subito come va detta: la superficialità che la modernità dà all’uomo non viene dalle troppe responsabilità che s’è preso, per le troppe libertà che s’è concesso, ma dai modi con cui s’è deciso di lasciar perdere a correggerne gli errori, sottolineandoli magari con uno sberleffo ma senza incidere profondamente anche nella carne – ché una cicatrice è un segno a futura memoria. E sì che quelli erano altri tempi, ma – tanto per dire – quando cominciai le elementari (quelle che un asettico linguaggio moderno s’ostina a definire “primarie” – come quelle dei partiti) m’era capitata in dono una maestra che, se ti scappava di dirla grossa, uno scappellotto ben assestato non te lo lesinava mica. C’era, a quei tempi, chi s’esercitava col righello e – vólgo vuole – anche con gli zoccoli certe insegnanti erano ben allenate. E con discreta mira – giurano i più.
Per cui, se una di queste brave maestre d’una volta gli avesse sentito dire – come ha ahimè annunciato – che «i nostri connazionali combattevano perché dal Piave non passasse lo straniero […]. Il 24 maggio tornerò sul Piave perché i confini vanno difesi», uno scappellotto no, ma, come un singhiozzo in quell’affanno nero, una riga in fronte a Salvini gliela tiravano di certo. Una per ciascuna. Tutte assieme.
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