Folla di persone in fila a osservare una macchia grigiastra affiorata su un muro; macchia che ha fattezze di un volto – quello Santo di Padre Pio, manco a dirlo. Lo aveva scorto – questo è il ricordo – una donna e ne aveva dato voce al paese intero. Storcevano il muso i cinici e gli scettici: l’è umidità, il piscio d’un cane bla-bla-bla. Nulla, nessuno dei presenti accorsi si curò di quelle voci stonate e tutti sfilarono, piansero, videro e pregarono, a ribadire la superiorità della nostra cultura giudaico-cristiana su quella dei fanatici mussulmani. Il vero Dio, è risaputo, sa a chi mandare i segni. La differenza la fa il cuore di chi vi si pone di fronte, ai segni, e col cuore la fede.
Questo ricordo riaffiora alla mente come efflorescenze di salnitro su un muro e me ne richiama un altro legato a ciò che mi diceva, quand’ero adolescente, S.: dottore in ingegneria, temibile scassacazzo, cirrotico e, dimenticavo, d’animo cinico assai; morì giovane (ne soffrii nel profondo, stragiuro). Egli, fumando beato la sua cicca (accesa e spenta chissà quante volte) e sorseggiando, di nascosto dai suoi ma non da me, la mitica Sambuca Molinari, era solito indicarmi nella vastità del cielo, a lavoro finito – uno dei tanti che svogliatamente conduceva e che mi costringeva a seguire –, qualche barocca nuvola lontana, che a me di volta in volta pareva somigliare a galeone, amerindio o pescecane. Ed egli a me, svogliatamente, col labbro sporgente e sempre screpolato: “Ma no, ma no, testa di cazzo, non hai un briciolo di sensibilità artistica… Ma qua’ indiano o pescecazzo. Guarda là, guarda bene quella è una vulva! Non la vedi?” E guai ad ostinarsi col pescecane o col pellerossa. Io, poi, pur molto affezionato e a lui legato da una devozione pressoché filiale o, se volete, di paracula riconoscenza (ché lui poi, a modo suo, m’aiutava con la matematica), non ero mai capace di convenire, foss’anche per rispetto o per antipatico dispetto. Al massimo, ammettevo: “Sì, a ben vedere un galeone e una vulva…”. Sempre stato di una civiltà inferiore, io. Né cuore, né fede, né fegato.