A Marcello Veneziani il 25 aprile non piace e, nel borbottio del suo rosario, dalle pagine de Il Tempo, spiattella i suoi (sette) buoni motivi per non festeggiarlo.
Al netto delle polemiche che questa festa si trascina stanca da anni, oggi il modo più diffuso per onorare la Liberazione consiste nel rimuoverla, annegandola in un mare di ignoranza. Ma anche i pochi che sanno ancora di cosa si tratta preferiscono abbassare i toni della polemica “[p]erché non rende onore al nemico, anzi — per dirla con le parole di Veneziani — nega dignità e memoria a tutti costoro, anche a chi ha dato la vita per la patria, solo per la patria, pur sapendo che si trattava di una guerra perduta.” Una sensibilità meritoria, se non fosse che per attutire il senso del 25 aprile si è finito per ribaltarlo, riducendo la Resistenza alla componente filosovietica e trasformando le ferocie partigiane che pure ci furono nella prova che tra chi combatteva a fianco degli Alleati e chi coi nazisti non c’era poi tutta quest’enorme differenza.
Nel fragore di una festa così festante, tra un analgesico e una rimozione dei fatti, è passato in secondo piano da cosa fummo liberati. Fummo liberati — lo dico per i distratti — da una dittatura populista alleata con la Chiesa, direi. Ci togliemmo dalle palle uno che la Chiesa aveva definito “uomo della Provvidenza” e che fino a due anni prima era osannato da tutti, tranne che da quelli in villeggiatura a Ventotene o a riempire quadernetti nelle patrie galere: scassacazzi considerati a lungo dei disadattati e dei nemici della Patria.
La Patria aveva un Destino, perfino un Impero, e il Regime poteva godere di un consenso plebiscitario, preti che benedicevano gagliardetti e pugnali sguainati al cielo. Ma la plebaglia si sa com’è: “è la solita folla che alterna l’«Osanna!» al «Crucifige!» e che tende ad attribuire a uno solo le proprie fortune o le proprie sciagure. Chi la trascina e chi la esalta, accarezzandone gli istinti ed eccitandone le passioni, la vedrà delirare nell’ora del successo, ma se la ritroverà davanti, inesorabile e spietata, al momento del disastro” (Raffaele Cadorna, La riscossa, Rizzoli 1948).
Dovrebbe essere la festa di chi aveva ragione su chi aveva torto, ma torto e ragione dividono, e la storia cambia spesso parere. E c’è chi provocatoriamente sfrutta queste oscillazioni, piccole crepe nella memoria storica, per attenuare le ragioni e per esaltare i torti a seconda che si trovi a sedere da una parte o all’altra del gruppo.
Il 25 aprile, scrive ancora Veneziani, è “rimasta l’unica festa civile osservata in Italia”. Civile un cazzo, caro Marcello, ché tra gli scassacazzi che fiancheggiavano gli alleati e quelli che appoggiavano i nazisti la differenza c’era ed era tutta Politica (scritta volutamente con la “P” maiuscola). Tant’è che se avessero vinto i reduci di Salò saremmo diventati una colonia di Hitler. Avendo vinto i partigiani, siamo una democrazia. Nonostante tutto, a sett’antanni di distanza, il secondo scenario mi sembra ancora preferibile al primo.
Anche per questo: grazie, partigiani.
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