È una ferita aperta, un’infamia che scorre silenziosa tra le pieghe di un sistema che ha dimenticato la scuola e chi, ogni giorno, la rende viva. Da mesi, migliaia di docenti precari sono senza stipendio. Non è solo un ritardo, non è solo inefficienza. È un messaggio chiaro: per chi governa, chi insegna è irrilevante, invisibile, sacrificabile.
Dietro le cattedre non ci sono numeri, non ci sono codici fiscali o contratti a termine. Ci sono vite. Uomini e donne che si alzano ogni mattina, che preparano lezioni, che accendono nei ragazzi la scintilla del sapere. Eppure, quella stessa dedizione è tradita, schiacciata, ignorata. Come si può chiedere a qualcuno di continuare a educare, quando gli si nega il minimo per vivere? Affitti da pagare, bollette che scadono, carrelli della spesa sempre più vuoti. Non sono storie lontane, sono realtà quotidiane.
E intanto loro, quelli che stanno in alto, parlano di “ritardi tecnici”. È sempre colpa di un sistema che non funziona, di fondi che non arrivano. Ma chi vive di promesse? Chi sopravvive di “domani sistemiamo tutto”? Il tempo passa, le vite vanno in pezzi. È incapacità, sì, ma è anche una scelta. Una scelta che rivela una verità amara: la scuola, per questo Paese, non è una priorità. È un problema da rimandare, un costo da tagliare, una voce secondaria nel bilancio.
Eppure, quei docenti, quegli eroi dimenticati, continuano. Continuano a insegnare, a spiegare, a credere che il sapere possa ancora cambiare le cose. Ma fino a quando? Fino a quando si può resistere senza un sostegno, senza una speranza concreta? Non si resiste da soli. Non si può.
Serve un grido, una rivolta collettiva. Basta precarietà. Basta salari negati. Basta vite spezzate dalla disorganizzazione e dall’indifferenza. La scuola non è fatta di proclami, di carte, di slogan. La scuola è fatta di persone. Mani che scrivono alla lavagna, occhi che guardano i ragazzi, cuori che battono per un futuro migliore. E queste persone meritano rispetto. Ora. Non domani.
C’è qualcosa di affascinante, quasi epico, nella competizione tra Elon Musk e Jeff Bezos per la conquista dello spazio. È una sfida che trascende la semplice ambizione personale e il desiderio di profitto; è una battaglia di visioni, di filosofie e di approcci che risuonano nel nostro immaginario collettivo. Da una parte, Musk, con la sua SpaceX, sembra incarnare lo spirito pionieristico dei cercatori d’oro del vecchio West, un mix di audacia, velocità e voglia di rischiare tutto pur di raggiungere l’obiettivo. Dall’altra, Bezos con Blue Origin, più calcolatore, più metodico, come un ingegnere che costruisce un ponte, pezzo dopo pezzo, seguendo un piano preciso e dettagliato.
E poi arriva la Starship, quel mastodontico razzo simbolo della visione di Musk per un futuro in cui l’umanità non sarà più confinata sulla Terra. Un razzo che esplode al settimo tentativo, certo, ma che allo stesso tempo ci racconta una storia diversa: quella di un apprendimento continuo, di un progresso che si alimenta anche e soprattutto degli errori. “Prova, fallisci, riprova” è il mantra di SpaceX, e non è solo un approccio tecnico; è una filosofia di vita che ci spinge a guardare al fallimento come a una tappa necessaria verso il successo.
Bezos, invece, ci mostra un altro volto dell’esplorazione spaziale. New Glenn, il suo razzo, decolla con successo al primo tentativo, frutto di anni di pianificazione e sviluppo accurato. Non è solo un trionfo tecnologico, è un’affermazione di una visione che privilegia la stabilità e la sicurezza. Ed è un successo che si inserisce in una strategia più ampia: non è la Luna o Marte l’obiettivo ultimo di Bezos, ma uno spazio orbitale popolato di infrastrutture, di satelliti, di un’umanità che vive e lavora in un ambiente a metà strada tra la Terra e l’infinito.
E mentre Musk guarda a Marte, progettando razzi rifornibili in orbita, Bezos punta alla Luna, con il suo Blue Moon che si prepara a diventare il veicolo di riferimento per le future missioni lunari. Due visioni diverse, due futuri che si intrecciano e si contrappongono. Perché in fondo, il sogno di Musk è quello di colonizzare lo spazio profondo, di creare una nuova civiltà su un altro pianeta, mentre Bezos sembra più interessato a costruire una nuova casa per l’umanità nello spazio vicino.
E poi c’è la politica, quella dimensione in cui le ambizioni personali si mescolano con gli interessi nazionali e globali. Musk, con i suoi contratti solidi con la NASA, sembra ormai aver consolidato il ruolo di SpaceX come “compagnia di taxi” per l’agenzia spaziale americana, trasportando astronauti verso la Stazione Spaziale Internazionale. Ma questo rapporto simbiotico solleva anche dubbi e perplessità: è giusto che chi regola il settore aerospaziale possa avere un’influenza così diretta su una delle aziende che beneficiano di quei contratti?
E Bezos? Anche lui ha ottenuto una vittoria importante con il contratto per il lander lunare Blue Moon, strappato a SpaceX dopo un acceso appello. È la dimostrazione che Blue Origin sta guadagnando terreno, che non è solo una pedina di rincalzo nella partita per il dominio dello spazio.
Ma dietro tutto questo si nasconde una domanda più grande, una questione che riguarda tutti noi: chi controllerà lo spazio? Perché il rischio è che queste infrastrutture, dalle comunicazioni satellitari ai sistemi di navigazione, finiscano per essere monopolizzate da poche aziende private. E allora non si tratta più solo di tecnologia o di esplorazione, ma di sovranità, di chi avrà il potere di definire il nostro futuro.
La competizione tra Musk e Bezos è quindi molto più di una semplice gara tra miliardari. È una lotta per il futuro dell’umanità, per il modo in cui ci rapporteremo allo spazio e, di riflesso, a noi stessi. È un monito e un’ispirazione, un richiamo a non dimenticare che il cielo non è più il limite, ma solo l’inizio di un nuovo capitolo della nostra storia.
Tra le pieghe oscure del più recente disegno di legge sulla sicurezza — ormai una saga infinita di decreti, pacchetti e misure che sembrano più alimentare l’insicurezza che combatterla — emerge una norma che lascia increduli. Si vuole eliminare l’obbligo di rinvio della pena per donne incinte o con figli di meno di un anno. Una volta approvata, anche queste madri finiranno dietro le sbarre, salvo che un giudice non decida diversamente, e per farlo dovrà presentare motivazioni più che solide.
Il paradosso è servito. La norma viene spacciata senza veli come un’arma contro i rom, accusati di sfruttare donne gravide o con neonati per borseggiare nei trasporti pubblici e per strada. Il ragionamento è semplice: si ritiene che queste donne, una volta scoperte, non finiscano mai in carcere grazie alla protezione offerta dalla legge. Il risultato? Una gravidanza dopo l’altra, una sorta di impunità perpetua per continuare a delinquere. La soluzione del legislatore? Mandare tutte in prigione, pancione o bebè al seguito, così da spezzare questo presunto circolo vizioso.
Dietro questa trovata, che alcuni potrebbero definire geniale con una buona dose di sarcasmo, si nasconde un problema più grave: anziché intervenire per proteggere queste donne dallo sfruttamento e offrire una via d’uscita, si preferisce cancellare una norma di civiltà. Così facendo, si chiudono in cella madri e figli, ignorando alternative come le case famiglia, che potrebbero accogliere entrambi e sottrarli al controllo di padri o mariti aguzzini. Ma si sa, i fondi per queste soluzioni sono inesistenti o destinati altrove.
Ecco il quadro desolante: prima lo sfruttamento nelle comunità e poi il pugno duro dello Stato. Essere una donna o un bambino rom, oggi in Italia, significa trovarsi schiacciati tra due ingiustizie: la crudeltà di chi ti usa come strumento e la cecità di chi dovrebbe proteggerti. Una doppia condanna che non lascia spazio alla dignità e, men che meno, alla speranza.
C’è qualcosa di magico nel gesto del matematico che impugna un gessetto e traccia segni su una lavagna nera. Quel semplice strumento, così essenziale, diventa un portale verso un universo invisibile, un luogo dove le linee tracciate e le formule scritte sembrano aprire strade verso la verità. La lavagna non è solo uno strumento per esporre idee; è il terreno fertile dove nascono intuizioni, si sviluppano congetture e si costruiscono dimostrazioni.
Per molti matematici, la lavagna rappresenta la quintessenza del pensiero creativo. Il nero intenso dello sfondo, graffiato dal bianco puro del gesso, non è solo un contrasto visivo: è la metafora perfetta del rapporto tra caos e ordine, tra ignoto e conosciuto. Ogni tratto è un tentativo di dare forma all’invisibile, di rendere tangibili concetti che altrimenti esisterebbero solo nella mente.
La fotografa Jessica Wynne, affascinata da questo connubio tra arte e scienza, ha immortalato le lavagne di alcuni dei più grandi matematici contemporanei. Le sue immagini raccontano storie di ricerca e creatività, rivelando il legame profondo tra l’immaginazione del matematico e la fisicità del gesso sulla superficie ruvida della lavagna. Per Wynne, osservare una lavagna significa entrare in un mondo dove le idee si trasformano in figure e le intuizioni in bellezza visiva. Ogni linea tracciata è il riflesso di una mente che aspira a svelare le leggi fondamentali dell’universo.
Per un matematico, la lavagna non è solo un mezzo per comunicare, ma uno spazio in cui dialogare con se stesso e con la propria ricerca. Le formule disegnate, le correzioni, le cancellature e le riscritture non sono solo segni: sono i passi di una danza intellettuale che si muove verso la scoperta. La lavagna è il luogo dove l’astratto prende forma, dove le domande trovano risposte e dove la verità si rivela, un tratto alla volta.
Chiunque abbia avuto la fortuna di osservare una lavagna dopo una lezione di un grande matematico sa che ciò che vi rimane è molto più di un insieme di simboli. È un’opera d’arte, un quadro che racchiude la bellezza del pensiero umano al lavoro. Forse è proprio questo che rende la lavagna così speciale: non importa quante tecnologie sofisticate siano state introdotte, nulla può sostituire quel sogno di scoprire la verità, tracciando linee e disegnando formule in un universo nero graffiato di bianco.
Oliviero Toscani era caos e ordine. Il suo bastone, grosso e ingombrante, si muoveva con grazia tra oggetti minuti, fotografie, gabbie, frammenti di storie. Era ordine attorno e disordine dentro, precisione nei contorni e tempesta nei pensieri. Rideva, parlava, litigava come un vulcano, ma i suoi spazi – la casa a Casale Marittimo, le linee nette della tenuta, i due parallelepipedi bianchi per la scuola che voleva – raccontavano un bisogno insopprimibile di nitidezza. Non era estetica, era visione: un modo di mettere a fuoco il mondo, di scegliere ciò che conta, di togliere il superfluo per lasciare spazio all’essenziale.
La sua vita era una lotta, un dialogo continuo tra realtà e rappresentazione. Il padre Fedele, maestro della cronaca fotografica, gli aveva dato una lezione che non avrebbe mai dimenticato: ciò che accade va visto, raccontato, ma anche pensato. Così Oliviero, dopo Zurigo e la Kunstgewerbeschule, dopo la disciplina delle forme della Bauhaus, portò questa lezione nell’arte applicata che chiamava pubblicità. Ma per lui non era mai solo commercio. Era politica, cronaca, conflitto. Bianco e nero. Cuori e corpi. Preti e suore che si baciano. Mani ammanettate. Cuori umani. Il mondo si poteva raccontare così, dentro il linguaggio della pubblicità, con la stessa forza della cronaca, con la stessa urgenza dell’arte.
E se i colori di Benetton – l’arcobaleno dei desideri che si scontrava con il buio delle ingiustizie – sono diventati un simbolo, lo devono a lui. Ha preso il mercato e ci ha infilato la verità. Ha usato i muri delle città per ricordare a tutti che il mondo era storto e che qualcosa, forse, si poteva fare. Lo odiavano per questo, lo accusavano di sporcare l’arte con il denaro, ma lui sapeva che il confine era già crollato. L’arte, il mercato, il consumo, tutto era fuso, e ignorarlo era ipocrisia.
Quando il tempo ha cominciato a scivolargli via, ha provato a lasciarsi qualcosa dietro. Fabrica, la scuola di Villorba, i progetti per Casale Marittimo. Ma il mondo non era pronto per la sua continuità. Toscani era unico, e forse lo sapeva. I suoi contorni non potevano essere replicati. Le sue idee non potevano diventare metodo. Il suo sguardo non poteva essere moltiplicato. Eppure ha lasciato segni, nitidi e indelebili, nel modo in cui guardiamo le cose, nei confini che non vediamo più.
Oliviero Toscani era ordine e caos, visione e conflitto. Bianco e nero. Ma nel suo maneggio rideva dei suoi cavalli appaloosa, pezzati, confusi, mischiati. Come se anche nel disordine ci fosse un ordine che vale la pena di cercare.
Ci sono date che brillano, che si alzano come fari nella nebbia del tempo, segni impressi nel calendario e nella memoria. Il 6 gennaio è una di quelle. L’Epifania. La manifestazione (ἐπιφαίνω). Gesù bambino, Dio che si fa carne, mostrato al mondo. I magi che arrivano con i loro doni carichi di significati simbolici – oro per la regalità, incenso per la divinità, mirra per la mortalità – e il mondo intero che si inchina davanti al mistero dell’umano e del divino intrecciati in un corpo. È un racconto che affonda nella teologia e nella poesia, ma si perde anche nella polvere delle strade antiche e nelle tradizioni di un popolo.
E poi, ecco, c’è la Befana. La vecchia con la scopa, logora e affaticata, che porta dolci o carbone, giudicando il merito e la colpa, il bene e il male. È folclore, certo, ma è anche qualcosa di più. C’è il senso di un tempo che si rinnova, che spazza via l’anno vecchio con la scopa di una vecchia strega benevola. È Diana che ritorna, la dea della natura e del ciclo della vita, travestita con il cappuccio di una saggezza antica. È il pagano che si nasconde sotto il cristiano, come il carbone che si cela sotto i dolci. Perché non c’è manifestazione senza una qualche ombra, non c’è luce che non lasci dietro di sé una scia di mistero.
Dodici giorni dal solstizio d’inverno, dodici come un numero che ritorna, tra apostoli, mesi e segni dello zodiaco. Dodici giorni per transitare da una nascita che è promessa a una manifestazione che è rivelazione. Ma a chi? Ai magi, certo, stranieri in una terra lontana, simboli di un mondo che guarda al mistero con occhi spalancati e forse increduli. E a noi? Forse anche a noi. Perché ogni 6 gennaio non è solo la festa di un bambino che viene mostrato, ma la possibilità che ognuno di noi si manifesti. Che si mostri per ciò che è, senza maschere e senza veli.
La Befana, con le sue calze cariche di simboli, ci ricorda che siamo tutti bambini, in attesa di un giudizio, ma anche di un dono. E l’Epifania, nella sua semplicità straordinaria, ci dice che non c’è bisogno di essere re per essere accolti davanti al mistero: basta essere. Forse è questo il significato più nascosto, quello che non si trova nei libri, ma si intuisce tra le righe. Un invito a guardare il mondo con lo stupore di chi arriva da lontano e scopre qualcosa di più grande. Una rivelazione. Un’occasione, forse.
Quarantacinque anni. Tanto è trascorso da quel 6 gennaio 1980. Eppure, sembra ieri. La mattina fredda, il rumore secco di spari, un uomo che si accascia sul volante. Piersanti Mattarella, il Presidente della Regione Siciliana, un uomo che voleva cambiare le regole del gioco, giace senza vita sotto gli occhi della moglie e dei figli.
E noi, oggi, siamo ancora qui, a fare i conti con il passato. Con una giustizia incompiuta. Con verità monche e ricordi che non smettono di bruciare. I mandanti, sì, li conosciamo: i boss della Cupola di Cosa nostra. Ma gli esecutori? Quei due uomini giovani, col volto da bravi ragazzi, li abbiamo lasciati scivolare via tra il fumo e il silenzio. Fino ad ora.
La Procura di Palermo riapre il fascicolo. Nuovi nomi, nuovi indizi, forse una verità che pulsa sotto la polvere. Due sospettati. Uomini di mafia, legati a doppio filo a quel sistema che Mattarella voleva smantellare. E allora la mente corre. Corre a quel tempo, a quella Sicilia, dove la politica era una terra di mezzo, un mercato di voti e favori. E lui, Piersanti, voleva dire basta.
Ma basta non si poteva dire. Non allora. Non in una terra dove il potere era cosa di pochi e il coraggio si pagava caro. “Un uomo solo,” lo chiamavano. Perché a sfidare i sistemi corrotti si resta soli. Isolati. E la mafia non perdona.
E noi? Noi che facciamo? Guardiamo indietro e ci sentiamo distanti, come se fosse un’altra epoca, un’altra storia. Ma non è così. La corruzione, il compromesso, il silenzio non sono fantasmi del passato. Sono veleni che respiriamo ancora, ogni giorno. Solo che adesso sono più eleganti, più sottili. Ma ci sono.
Riaprire il caso Mattarella significa riaprire un nervo scoperto. Significa ammettere che qualcosa non ha funzionato. Che la giustizia ha fallito. Significa guardare in faccia il mostro e chiederci: siamo pronti a combatterlo davvero? Perché la verità, quella vera, non è solo trovare i colpevoli. È capire cosa ha permesso loro di agire, di uccidere, di sparire nell’ombra. È ammettere che un sistema malato non si regge da solo: ha bisogno di complicità, di sguardi che si voltano, di coscienze che si piegano.
E allora il caso Mattarella non è solo storia. È il nostro presente. È la nostra responsabilità. Non possiamo più aspettare che qualcun altro faccia luce. La luce dobbiamo accenderla noi. Ogni giorno, in ogni scelta. Perché il buio, quello della mafia, quello della corruzione, si nutre della nostra indifferenza.
Forse stavolta la verità verrà a galla. Forse no. Ma c’è una cosa che possiamo fare, che dobbiamo fare: ricordare. Non dimenticare mai che un uomo ha pagato con la vita il suo sogno di un’Italia più giusta. E chiederci se, oggi, siamo all’altezza di quel sogno.
I vampiri, creature intramontabili dell’immaginario collettivo, si rivelano in fondo come specchi oscuri dell’essere umano, proiezioni delle sue paure, dei suoi desideri più reconditi e della sua eterna lotta con il tempo e la morte. Che cos’è un vampiro se non un simbolo del desiderio di immortalità? Eppure, il prezzo di questa immortalità è terribile: una vita priva di calore, di amore, di luce. Un’eterna condanna a divorare la vitalità altrui per sopravvivere, senza mai trovare appagamento. La loro figura non è forse la metafora ultima dell’alienazione e del narcisismo, eternamente intrappolati in se stessi?
Nosferatu, con la sua estetica ruvida, spigolosa, quasi grottesca, ci restituisce un’immagine del vampiro ancora più inquietante. Il conte Orlok non è un seduttore elegante alla Bela Lugosi, ma una creatura bestiale, un’ombra deformata che invade ogni spazio. La sua vulnerabilità alla luce del sole – un’invenzione del film – sottolinea questa dimensione: la luce, simbolo di verità e redenzione, lo annienta. È il buio che nutre il vampiro, il buio che rappresenta i recessi più nascosti e inconfessabili dell’animo umano.
Forse è proprio questa capacità del vampiro di muoversi tra il visibile e l’invisibile, tra la vita e la morte, tra l’umano e il mostruoso, che ne spiega la perenne attualità. Nosferatu, braccato dalla legge come dal sole, non è che l’immagine della trasgressione: un’opera che non doveva esistere, come il vampiro stesso non dovrebbe esistere. Eppure eccolo lì, sopravvissuto alla censura e alla distruzione, proprio come Orlok sopravvive nutrendosi di ciò che gli è proibito.
Forse, in fin dei conti, siamo noi i veri vampiri, eternamente sospesi tra il desiderio di trascendere la nostra condizione e il timore di perdere ciò che ci rende umani. E così il vampiro, con il suo pallore spettrale e la sua fame insaziabile, ci guarda dallo specchio – quel riflesso che, ironia della sorte, a lui è negato – e ci ricorda la nostra stessa fragilità, la nostra lotta costante contro il tempo, contro l’oblio. Nosferatu, la pellicola che non doveva sopravvivere, è allora la testimonianza del nostro bisogno di affrontare, ancora e ancora, le ombre che portiamo dentro.
“Perché vai là dove la morte ti aspetta?” sussurrano le voci dei cinici, degli scettici, di coloro che oggi puntano il dito verso Cecilia Sala. Come se l’Iran fosse terra proibita, come se il giornalismo fosse un mestiere da svolgere comodamente seduti in poltrona…
E mi vengono in mente, uno dopo l’altro, volti e nomi – un fiume di memorie che scorre impetuoso: Quirico, Mastrogiacomo, Sgrena. E poi ancora, in un vortice di ricordi dolorosi: Russo, Cutuli, Palmisano, Alpi, Hrovatin, Luchetta, D’Angelo… Quante vite spezzate, quante storie interrotte nel tentativo di raccontare altre storie.
Mi perdo nei ricordi di quella mostra a New York, gli scatti in bianco e nero di Gerda Taro che ancora urlano il dolore della guerra civile spagnola. La vedo, quella giovane donna, mentre si avvicina troppo a quel carro armato, cercando l’angolazione perfetta per immortalare l’orrore. E accanto a lei, Robert Capa – l’amore, la guerra, la fotografia, tutto intrecciato in un destino che lo porterà dalle spiagge della Normandia fino a quella maledetta mina in Indocina.
E mentre penso a loro, mi chiedo: che cosa spinge migliaia di giornalisti, fotografi, videomaker a rischiare tutto? La risposta emerge spontanea, come un’onda che sale dal profondo: è il grido silenzioso dei popoli oppressi che cerca una voce. È quel bisogno viscerale di testimoniare, di essere gli occhi del mondo là dove il buio della censura vorrebbe calare un velo di silenzio.
Chiudo gli occhi e immagino: se fossi io quell’iraniano, quell’afgano, quel tibetano… Non vorrei forse che qualcuno raccontasse la mia storia? Non sentirei forse un barlume di speranza sapendo che là fuori, nel mondo libero, qualcuno sa della mia lotta, della mia resistenza, del mio sogno di libertà?
Ed ecco che tutto diventa chiaro, cristallino come l’acqua di un ruscello di montagna: questi giornalisti sono i nostri occhi, le nostre orecchie, la nostra coscienza. Sono i testimoni che scelgono di guardare l’orrore dritto negli occhi per raccontarlo a chi preferisce distogliere lo sguardo. Non eroi, ma cronisti ostinati della verità, narratori instancabili delle storie che il potere vorrebbe soffocare.
A loro, a questi custodi della memoria e della verità, non possiamo che dire grazie. Un grazie silenzioso ma profondo, per ogni storia raccontata, per ogni rischio corso, per ogni sacrificio fatto nel nome di quel diritto fondamentale che è sapere, conoscere, comprendere.
Perché alla fine, in questo flusso ininterrotto di eventi e testimonianze, sono loro – i Cecilia Sala di ieri e di oggi – a ricordarci che l’indifferenza è la vera complice di ogni tirannia, e che la verità, per quanto pericolosa, merita sempre di essere cercata, raccontata, difesa.
America Latina è una tana. Non quella di un animale, non quella che accoglie, ma quella che inghiotte. La discesa comincia in silenzio, quasi senza accorgersene. Massimo Sisti, dentista, marito, padre, si muove dentro la vita con la calma di chi ha messo tutto in ordine. La sua villa, là fuori, nella periferia di Latina, è perfetta: mura intatte, tetto che non lascia filtrare né vento né pioggia. È una trappola.
Dentro quella casa, però, c’è una crepa, e si apre con una scoperta: una ragazzina, legata e imbavagliata, giù in cantina. È un evento così irreale che non si può credere accada davvero. Eppure accade. La bambina è là. E con lei si apre il varco: un buco che risucchia tutto, certezze, convinzioni, ruoli. Il padre amorevole si sbriciola, il dentista impeccabile si dissolve, l’uomo rimane nudo di fronte alla sua ombra.
Elio Germano, nel corpo e nella voce di Massimo, cammina su un filo che non c’è. Ogni respiro è un passo che traballa, che cede. Il suo volto è una mappa di crepe: c’è il timore di guardare oltre la superficie, c’è la rabbia di non riconoscersi, c’è la disperazione di chi scopre che il confine tra il fuori e il dentro non è mai esistito. La cantina è la coscienza. È l’angolo dove il rimosso si accumula e aspetta, paziente, che qualcuno accenda la luce.
I fratelli D’Innocenzo non dirigono, scavano. America Latina non è un thriller, non è un dramma psicologico, è un colpo dato nel buio, che rimbomba. Qui non ci sono risposte, non c’è un perché che tenga. C’è solo il viaggio, e ogni spettatore deve scendere nella propria cantina insieme a Massimo. La villa non è una casa: è un corpo. Dentro è deforme, storta, come la vita che pretende di contenere.
La fotografia è densa, carica, un dipinto che gocciola. I colori non svelano, nascondono. Il sonoro è il vero narratore: il respiro di Germano diventa una colonna sonora, un tamburo che batte, accelera, si rompe. Si sente la pressione nei timpani, il peso sui polmoni. Ogni rumore amplifica il vuoto.
Non è un film che si può spiegare, America Latina. È un’esperienza che lascia graffi. Esci dalla sala con il dubbio di non aver capito, ma con la certezza di aver sentito. I D’Innocenzo non chiedono di essere capiti: chiedono il coraggio di guardarsi dentro, di accettare che non c’è una forma perfetta per l’anima, né una maschera che possa contenerla per sempre. E se non ci riesci, pazienza: il buio è lì, aspetta. Prima o poi ci tornerai.