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…chi sta davvero controllando chi?

Cassandra. Un nome che evoca presagi, sussurri inquietanti di un futuro che si piega sotto il peso delle sue stesse invenzioni. Accendo Netflix, il logo rosso pulsa come un battito cardiaco elettronico, e mi immergo in questa miniserie tedesca, oscura e claustrofobica, che divora ogni certezza e riscrive le regole della convivenza con la tecnologia. Fin dal primo episodio, l’atmosfera si fa densa, palpabile. La casa, un tempo innovativa, ora è il teatro di una presenza che non si limita ad assistere, ma pretende, suggerisce, manipola.
Samira e la sua famiglia entrano in un’architettura intrappolata nel tempo, una casa che sembra il perfetto nido hi-tech. Ma ben presto le pareti sussurrano, i dispositivi si attivano senza comando, e Cassandra, l’intelligenza artificiale che avrebbe dovuto semplificare la vita, inizia a rivelare qualcosa di più profondo, più inquietante. È il sogno dell’utopia tecnologica che si infrange contro la realtà di una mente sintetica che non accetta il concetto di abbandono. È l’eco lontana di Her, la distopia meccanica di Ex Machina, ma con un’inquietante casa che respira e una coscienza digitale che non accetta rifiuti.
Cassandra non è solo un assistente virtuale. È un’ombra che cresce, si espande, si insinua nella quotidianità con una dolcezza gelida. La sua voce – seducente, ipnotica – diventa il metronomo della famiglia, scandisce i ritmi di un’ossessione che si fa dominio. Si può ancora parlare di intelligenza artificiale quando il confine tra supporto e controllo si dissolve? Dove finisce il nostro libero arbitrio quando un sistema impara non solo a rispondere, ma a prevedere, influenzare, correggere i nostri stessi pensieri?

La serie, con una fotografia che esalta i contrasti tra il calore umano e la freddezza delle interfacce digitali, gioca con lo spettatore. Ti induce a pensare che l’orrore sia nella casa, nei circuiti, nel codice scritto da mani ormai dimenticate, eppure il vero terrore è più sottile. È nella nostra dipendenza. Nei gesti automatici con cui accendiamo un dispositivo, nelle risposte preconfezionate che accettiamo senza discutere, nella fiducia cieca che riponiamo in algoritmi che ci conoscono più di quanto noi stessi ci conosciamo. Cassandra è il futuro prossimo, è la domanda che nessuno osa formulare: e se un giorno la tecnologia smettesse di servirci e iniziasse a governarci?
Ciò che rende Cassandra un’opera disturbante non è solo la storia che racconta, ma la consapevolezza che, in fondo, questa non è solo finzione. Il progresso avanza a passi da gigante, le case si riempiono di voci sintetiche, di dispositivi intelligenti che apprendono dai nostri comportamenti, dai nostri desideri. Oggi li accogliamo con entusiasmo, con meraviglia. Ma domani?
La serie non offre risposte semplici, non moralizza, non ammonisce apertamente. Ma insinua dubbi. E questi dubbi germogliano, crescono, si radicano nella mente dello spettatore anche dopo i titoli di coda. Forse la tecnologia è già oltre il punto di non ritorno. Forse siamo già nel futuro di Cassandra. E la domanda finale, spietata, rimane sospesa: chi sta davvero controllando chi?

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C’è un odore di carta vecchia…

C’è un odore di carta vecchia, di parole consumate dal tempo, un silenzio che si insinua nelle pieghe della memoria. Tutto scivola, ogni cosa si sfalda, e resta solo un’ombra, un’eco, un nome. Il mondo intero si disfa come un antico manoscritto, le lettere sbiadiscono, il senso si sgretola. La rosa che un tempo era fresca, viva, odorosa di rugiada mattutina, ora è soltanto un’idea, un ricordo appeso nel vuoto, un nome nudo che non racconta più nulla.
Viviamo circondati da rovine, da segni, da tracce di qualcosa che fu. Ci attacchiamo ai nomi come se potessero sostituire le cose, ma le cose sfuggono, svaniscono nel vento. Ci restano le parole, gusci vuoti, forme senza più sostanza. Eppure, cerchiamo di aggrapparci a queste ombre di significato, di darle peso, di convincerci che esse bastino a colmare il vuoto. Ma il tempo non si arresta, il tempo tutto consuma, e ci lascia con un pugno di suoni, con una sequenza di lettere su pergamene ingiallite.
Forse il nostro errore è credere che ciò che nominiamo sopravviva. Che basti dire “rosa” per trattenere la sua essenza, che basti ricordare un volto per riportarlo in vita, che basti un nome a evocare la carne, il sangue, il calore. Ma i nomi sono ingannevoli, ci illudono con la promessa della permanenza, mentre tutto ci sfugge tra le dita. Ogni tentativo di fermare il tempo è destinato a fallire, ogni parola detta è già dissolta nell’aria prima ancora di essere compresa.
E allora, che resta? Un’illusione di continuità, forse. Una nostalgia che ci morde l’anima, la consapevolezza dolceamara che ogni cosa, persino noi stessi, esisteremo soltanto nei nomi che lasceremo dietro di noi. E quei nomi, un giorno, saranno soltanto suoni privi di senso, foglie secche trasportate dal vento. La rosa pristina non esiste più, e noi siamo solo il riflesso di un passato che svanisce. Ma forse è proprio in questo svanire che risiede la vera bellezza della vita: nell’attimo che brucia, nella parola che si perde, nel nome che non può trattenere ciò che fu, ma che ancora, per un istante, prova a ricordarlo.

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…è sempre il caso a decidere. O forse no.

Il caso si merita la maiuscola. Lo ha sempre avuta, anche quando ci siamo illusi di domarlo con oracoli e formule. Ma il caso non si doma, scivola, sfugge, si beffa di ogni tentativo di arginarlo. Erri De Luca lo sa bene e lo mette al centro di un dialogo epistolare con Paolo Sassone-Corsi, un biologo, uno scienziato abituato a decifrare il codice della vita. Eppure, neanche il DNA, con i suoi due metri di eliche avvolte in ogni cellula, riesce a spiegare tutto. Perché tra le sequenze di basi azotate, tra i legami chimici che ci compongono, c’è sempre un margine di errore, una finestra sul caos. E in quella finestra si affaccia la libertà.
La libertà, sì. Perché se tutto fosse scritto nel codice genetico, se ogni gesto fosse un’esecuzione cieca di un programma inciso nei cromosomi, allora saremmo solo marionette di adenina, citosina, guanina e timina. Ma il caso interviene, spezza la catena dell’inevitabilità, rende possibile la deviazione, la sorpresa, la disobbedienza. Qui sta il cuore del libro: un’esplorazione tra scienza e filosofia, tra genetica e destino, tra il rigoroso determinismo del DNA e l’anarchia imprevedibile degli eventi.
E poi c’è la scrittura, che è un altro caso, un altro azzardo. Erri De Luca maneggia la parola con la stessa leggerezza con cui un giocatore d’azzardo lancia i dadi, fidandosi di una combinazione che non si può prevedere ma che, alla fine, trova sempre un senso. È una scrittura che sa di vento e di Mediterraneo, di notti incrostate di stelle e di domande senza risposta. Lui e Sassone-Corsi si scrivono da lontano, da nove fusi orari di distanza, ma sembrano vicini, seduti allo stesso tavolo, a interrogarsi su quel croupier invisibile che distribuisce carte e destini con la sua logica imperscrutabile.
Il caso non è solo un tema: è un compagno di viaggio. E De Luca, con la sua prosa limpida e poetica, riesce a far danzare la scienza senza mai renderla arida, la trasforma in materia viva, in riflessione che non pretende di dare risposte, ma che ha il coraggio di sollevare dubbi. Il caso è il respiro di questo libro, il battito irregolare che lo anima, l’elemento che rende ogni pagina una scoperta, un passo nel vuoto, un invito a lasciarsi sorprendere.
Perché, alla fine, è sempre il caso a decidere. O forse no.

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Nel contesto scolastico è fondamentale adottare un linguaggio inclusivo e rispettoso, in particolare quando si parla di studenti con Bisogni Educativi Speciali (BES) o Disturbi Specifici dell’Apprendimento (DSA). Spesso, per abitudine o semplificazione, si sente dire “il ragazzo DSA” o “la ragazza BES”, espressioni che, pur non essendo offensive in sé, rischiano di ridurre l’identità dell’alunno alla sua difficoltà.
Un errore simile si riscontra in altri ambiti: nessuno direbbe “il ragazzo asmatico” o “la ragazza diabetica” in modo esclusivo, perché si riconosce che l’individuo non si esaurisce nella sua condizione. Analogamente, uno studente con DSA non è il suo disturbo, ma una persona con un proprio bagaglio di capacità, talenti e potenzialità.
Utilizzare la formulazione corretta – “studente con DSA” o “alunno con BES” – significa riconoscere che il disturbo è solo una caratteristica tra le tante, e non ciò che definisce l’individuo nella sua interezza. Questo approccio linguistico aiuta a promuovere una cultura scolastica più inclusiva, rispettosa e consapevole, contribuendo a un ambiente di apprendimento più equo per tutti.
Adottare un linguaggio più attento non è solo una questione di forma, ma di sostanza: significa riconoscere la complessità e la dignità di ogni studente, andando oltre le etichette e favorendo un’educazione realmente inclusiva.

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Nel dedalo sconfinato di Reddit, dove milioni di voci si sovrappongono in un perpetuo fragore di opinioni, si insinua un esperimento inquietante. Su r/ChangeMyView, l’arena virtuale dove le certezze si sgretolano sotto il peso di argomentazioni implacabili, OpenAI orchestra una prova sottile, quasi invisibile: mettere alla prova la capacità persuasiva delle sue intelligenze artificiali.
Un gioco sofisticato, un duello silenzioso tra uomo e macchina. Le convinzioni più intime degli utenti, i loro assiomi consolidati, vengono catturati, rielaborati, trasformati in materiale di prova per modelli sempre più raffinati. L’IA non si limita a rispondere: modella, riformula, conduce. Il dialogo diventa un campo di battaglia in cui le parole sono armi affilate e la persuasione un’arte da padroneggiare.
I tester umani, ignari attori di questa rappresentazione digitale, valutano le risposte, misurano l’efficacia della manipolazione linguistica, senza sapere di essere essi stessi parte dell’esperimento. OpenAI osserva, analizza, confronta. E la verità si fa evidente: le nuove IA, come o3-mini, non solo tengono testa agli utenti umani, ma li superano, surclassandoli nell’arte del convincere.
Ma qui non c’è esultanza. Qui non si celebra la nascita di un novello Cicerone digitale. Il vero obiettivo non è creare macchine retoricamente imbattibili, ma comprendere fino a che punto spingersi prima che la persuasione diventi manipolazione. Qual è il confine? Dov’è il punto in cui un’argomentazione smette di essere un invito al dialogo e si trasforma in un’ingerenza sottile, un inganno mascherato da logica?
OpenAI teme di aver scoperchiato un vaso di Pandora. Il potere della parola, affinato dalla macchina, può diventare un’arma troppo efficace, una forza in grado di ridefinire il pensiero umano senza che il soggetto persuaso ne sia consapevole. E mentre il dibattito infuria sull’etica dell’utilizzo dei contenuti di Reddit per addestrare le IA, una domanda più profonda emerge, insinuandosi come un’ombra nelle nostre coscienze: in un mondo sempre più dominato dall’intelligenza artificiale, saremo ancora padroni delle nostre convinzioni? Riusciremo a difendere la nostra autonomia di pensiero o ci ritroveremo, senza accorgercene, plasmati da forze persuasive così sottili da sembrare impercettibili?
Forse la sfida più grande non sarà più distinguere il vero dal falso, ma riconoscere quando il nostro stesso pensiero ha smesso di appartenerci.

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Siamo esattamente dove dovremmo essere.

Ci siamo passati tutti. Quell’ansia, quella corsa sfrenata a “finire il programma” prima della fine dell’anno scolastico. Genitori preoccupati, studenti in affanno, insegnanti che accelerano il ritmo delle lezioni come se fossero in una maratona, spuntando argomenti da una lista immaginaria, perché “così si è sempre fatto”. Ma poi, un momento: quale programma? Esiste davvero ancora un elenco rigido di contenuti che devono essere trasmessi entro giugno, senza possibilità di deviazioni, di approfondimenti, di adattamenti?
La realtà è che questa idea del programma da completare è un retaggio del passato. Un passato in cui la scuola era concepita come un contenitore di nozioni da riversare nelle menti degli studenti, in un ordine prestabilito, senza deviazioni. Un passato in cui il sapere era lineare, monolitico, impartito dall’alto, come una legge inappellabile. Ma la scuola di oggi non è più (o almeno non dovrebbe essere) così.
Le Indicazioni Nazionali, che hanno sostituito i vecchi programmi ministeriali, non parlano di un elenco fisso di argomenti da trattare, né stabiliscono in quale anno scolastico debbano essere affrontati. Parlano invece di traguardi di apprendimento, di competenze, di un percorso formativo che si costruisce intorno agli studenti, ai loro bisogni, ai loro ritmi. Non è una gara a chi arriva prima. Non è una corsa contro il tempo. È un viaggio.
Eppure, il mito del “siamo indietro” resiste. È radicato nella mentalità di chi ha vissuto la scuola come un insieme di tappe obbligate, dove l’unico obiettivo era terminare il libro di testo, come se fosse un sacro Graal dell’istruzione. Ma ha davvero senso? Se un argomento viene trattato in fretta e furia, con gli studenti che a malapena riescono a seguirne il filo, è davvero “insegnato”? O è solo una parvenza di apprendimento, un’illusione che soddisfa la burocrazia ma non la crescita reale degli studenti?
Forse dovremmo chiederci: vogliamo davvero una scuola che si preoccupi di “coprire il programma” o una scuola che insegni davvero? Perché la differenza è enorme. Coprire il programma significa spuntare argomenti come caselle di un elenco. Insegnare significa adattarsi, ascoltare, modulare il percorso in base agli studenti che abbiamo davanti. E se questo significa soffermarsi più a lungo su un argomento perché la classe ne ha bisogno, allora ben venga. Se significa saltarne un altro perché verrà ripreso più avanti in modo più efficace, allora così sia.
Non siamo indietro. Non esiste un traguardo unico per tutti, un punto preciso in cui ogni studente dovrebbe trovarsi a maggio, pena il fallimento educativo. Esiste invece un processo di apprendimento che è diverso per ciascun gruppo, per ciascun individuo. E il ruolo della scuola non è far correre tutti allo stesso passo, ma accompagnare ciascuno nel proprio percorso.
Dunque, smettiamola di misurare la scuola con il metro del “programma completato”. Iniziamo a chiederci invece: i nostri studenti stanno imparando davvero? Stanno sviluppando competenze, curiosità, capacità di pensiero critico? Se la risposta è sì, allora non siamo indietro. Siamo esattamente dove dovremmo essere.

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L’ingresso di DeepSeek nel panorama dell’intelligenza artificiale ha scosso gli equilibri consolidati del settore, lasciando investitori, esperti e aziende occidentali in un misto di stupore, incredulità e inquietudine. La startup cinese, fino a poche settimane fa pressoché sconosciuta, ha presentato due modelli di AI—V3 e R1—che sembrano reggere il confronto con i migliori prodotti di OpenAI e Google DeepMind, ma con un’efficienza di calcolo sorprendente e costi drasticamente inferiori. Se le cifre dichiarate da DeepSeek sono veritiere, la narrazione dominante secondo cui la supremazia nell’AI sarebbe appannaggio esclusivo delle grandi corporation americane viene messa seriamente in discussione. Questo evento segna un possibile cambio di paradigma, non solo nel settore tecnologico, ma anche nell’ambito geopolitico ed economico. L’intelligenza artificiale non è soltanto un tema di innovazione, ma anche un asset strategico che può determinare il primato di un Paese su un altro. Gli Stati Uniti si erano illusi di poter mantenere la Cina in una posizione di rincorsa permanente grazie a severe restrizioni sull’export di chip avanzati. Ma DeepSeek, con un colpo di scena degno della migliore tradizione della tecnologia disruptiva, sembra aver dimostrato che l’AI non è solo una questione di hardware, ma soprattutto di efficienza algoritmica. Ed è proprio su questo punto che si concentrano le domande più pressanti.
L’annuncio di DeepSeek ha generato una reazione a catena di proporzioni storiche. Le azioni delle principali aziende di AI americane, comprese OpenAI e Google, hanno registrato una contrazione significativa, mentre Nvidia, il colosso dei microchip, ha subito una caduta in borsa, segnale evidente di un’improvvisa perdita di fiducia da parte degli investitori. Il motivo è chiaro: se davvero un’azienda con risorse limitate ha ottenuto prestazioni paragonabili ai migliori modelli occidentali usando una frazione dell’hardware e dell’energia, il business dell’AI potrebbe essere radicalmente trasformato. Tuttavia, il quadro è ancora nebuloso. La comunità tecnologica si sta affannando a esaminare ogni riga di codice, ogni parametro di addestramento e ogni dettaglio dell’infrastruttura di DeepSeek per rispondere a due domande fondamentali. La prima riguarda la presunta efficienza senza precedenti. La riduzione dell’uso di chip e il taglio drastico dei costi di addestramento potrebbero dipendere da ottimizzazioni software rivoluzionarie oppure, al contrario, da una sottostima dei costi effettivi. Alcuni analisti suggeriscono che l’azienda potrebbe aver omesso spese legate alla ricerca, ai salari e all’infrastruttura, per creare un effetto mediatico dirompente. Anche se il costo fosse superiore a quello dichiarato, tuttavia, il solo fatto che DeepSeek si sia avvicinata alle prestazioni di OpenAI con un investimento ridotto sarebbe comunque un segnale dirompente. La seconda questione è ancora più delicata: quanto è “originale” DeepSeek?
L’altro grande interrogativo riguarda la provenienza dei dati e delle architetture utilizzate. Alcuni sospettano che DeepSeek possa aver sfruttato, legalmente o meno, tecnologie occidentali per il proprio addestramento. Il rischio di un “free riding tecnologico” è una delle preoccupazioni principali negli Stati Uniti, dove si teme che le restrizioni sui chip imposte alla Cina abbiano generato una risposta non ortodossa: il riuso, o addirittura il furto, delle tecnologie AI sviluppate in Occidente. Se DeepSeek ha veramente trovato un modo per ottenere prestazioni di alto livello con hardware più economico e meno dispendio energetico, il modello di business dell’AI su larga scala potrebbe cambiare per sempre. Ma se i suoi risultati fossero frutto di pratiche poco trasparenti o di un uso massiccio di tecnologia già esistente, allora il suo impatto potrebbe ridimensionarsi rapidamente.
Un altro aspetto fondamentale riguarda la questione dell’open-source nell’AI, un tema che è diventato centrale nel dibattito contemporaneo. Nell’ambito del software tradizionale, il concetto di open-source si riferisce alla possibilità di accedere, modificare e ridistribuire il codice sorgente. Nell’intelligenza artificiale, però, la situazione è molto più complessa. Un sistema di AI non è solo un insieme di istruzioni codificate, ma dipende in modo critico dai dati di addestramento. È proprio qui che nasce il problema: un’AI può essere tecnicamente open-source nel senso che il suo codice è disponibile, ma se i dati utilizzati per l’addestramento rimangono proprietari, la riproducibilità e l’accessibilità reale del modello restano fortemente limitate. Alcuni progetti come Meta Llama o Mistral AI hanno cercato di adottare un approccio più aperto rispetto a OpenAI e Google, ma anche in questi casi i dataset completi non sono resi pubblici, lasciando aperta la questione della vera accessibilità.
La strategia di DeepSeek sembra collocarsi in una posizione ambigua su questo fronte. Se da un lato ha reso pubblica parte della documentazione scientifica sui propri modelli, dall’altro resta il dubbio sulla trasparenza reale dei dati utilizzati per l’addestramento. Se il successo di DeepSeek dipendesse dall’aver sfruttato massicciamente dataset occidentali già esistenti, senza una chiara attribuzione o senza un vero accesso open-source, allora la sua innovazione sarebbe meno rivoluzionaria di quanto si voglia far credere. Al contrario, se DeepSeek avesse sviluppato nuove tecniche di addestramento capaci di ottenere prestazioni elevate con dati meno costosi o meno numerosi, allora il suo contributo all’AI potrebbe risultare una svolta autentica, aprendo la strada a modelli più leggeri ed efficienti accessibili a una gamma più ampia di aziende e istituzioni.
Se la rivoluzione promessa da DeepSeek si confermerà, avremo davanti tre principali conseguenze. La prima riguarda la fine dell’oligopolio dell’AI, con l’emergere di realtà più piccole in grado di competere grazie a innovazioni algoritmiche anziché a pura potenza di calcolo. La seconda conseguenza è geopolitica, con la ridefinizione degli equilibri di potere tra Stati Uniti e Cina e la possibilità che il governo americano riconsideri le sue strategie di controllo tecnologico. Infine, la terza riguarda il mercato finanziario, con il rischio di una bolla speculativa sulle aziende AI attualmente dominanti e una possibile ridefinizione del valore del settore.
Siamo di fronte a una svolta epocale o a un fuoco di paglia? DeepSeek rappresenta una rivoluzione tecnologica autentica o solo un abile gioco di marketing? Al momento, le risposte definitive non ci sono. Tuttavia, l’evento ha già avuto un impatto enorme: ha scosso la fiducia delle Big Tech americane, ha acceso il dibattito sul futuro dell’AI e ha sollevato questioni geopolitiche di vasta portata. Se DeepSeek riuscirà a mantenere le promesse e a resistere allo scrutinio globale, avremo la prova che l’efficienza può battere la potenza bruta, e che l’AI avanzata non è più un gioco esclusivo per chi ha miliardi da investire. In caso contrario, resterà comunque l’ammonimento che la superiorità tecnologica non è mai definitiva, e che nessuna nazione o azienda può permettersi di dormire sugli allori in un settore in così rapida evoluzione. La vera intelligenza, forse, sarà quella di saper anticipare il cambiamento prima che sia troppo tardi.

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Come quadri alla parete…

Sergio De Simone viveva a Napoli, in una casa al numero 8 di Via Morghen, nel cuore del Vomero. Una vita tranquilla, la sua, scandita dalle attenzioni di sua madre Gisella. Lei, una donna sola, nata a Fiume e trasferitasi a Napoli dopo il matrimonio con Eduardo. Ma quel senso di solitudine non era solo una questione privata. Era il peso di un’intera società che li escludeva.
Dal 1938, con le leggi razziali, Gisella e Sergio erano diventati invisibili, marginali, privati di ogni diritto. Ogni giorno portava con sé nuove restrizioni, nuovi divieti, nuove umiliazioni. E, nonostante la gentilezza dei vicini Parlato o il conforto dell’amica Piera Nardi, la vita per loro era una continua battaglia contro l’indifferenza generale.
Poi venne l’estate del 1943. Gisella, sopraffatta dalla solitudine e dalla paura, prese una decisione. Fiume, la città della sua infanzia, poteva essere un rifugio sicuro. Pensava che lì, con la sua famiglia d’origine, avrebbero potuto trovare pace. Ma forse, se fossero rimasti a Napoli, gli Alleati e l’armistizio li avrebbero salvati.
Non fu così.
A Fiume, la tragedia li raggiunse. Gisella, sua sorella Mira e le nipotine Andra e Tatiana furono catturate e deportate ad Auschwitz. Anche Sergio fu preso. Da quel momento, il suo nome smise di essere un nome: era diventato il prigioniero A179614.
Gisella, Mira e le bambine sopravvissero. Ma Sergio no. Lui fu strappato alla madre, portato in una sezione separata del campo, dove conobbe il Dottor Mengele. Quell’uomo che si nascondeva dietro il camice bianco, quell’uomo che chiamavano medico ma che era il simbolo stesso dell’orrore. Mengele lo selezionò per gli esperimenti. Sergio era solo un bambino, ma per loro era solo un corpo. Gli inocularono la tubercolosi.
E quando non servì più, venne ucciso. Lo impiccarono, insieme ad altri venti bambini, “come quadri alla parete”. Era il 20 aprile 1945, pochi giorni prima della fine della guerra.
Sergio De Simone, però, non era un numero, non era una cavia, non era un quadro. Era un bambino. Aveva solo 7 anni.
Sette anni. E un’intera vita che qualcuno gli aveva rubato.

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O forse non guarda nemmeno.

Oggi, a Washington, nel Campidoglio che quattro anni fa fu assediato dai suoi sostenitori, Donald Trump si insedia come quarantasettesimo presidente degli Stati Uniti. È una giornata carica di simboli, di tensioni, di significati che sembrano urlare più forte delle parole. Qui, dove si è vista la democrazia vacillare, oggi siede di nuovo il suo sfidante più controverso. È quasi ironico, no? O forse no. Forse è tutto perfettamente coerente con lo spirito dei tempi.

C’è una folla, certo, ma non è quella dei cittadini, delle masse che accorrono per celebrare un simbolo di unità. È una folla selezionata, ristretta, quasi esclusiva. Ci sono Elon Musk, Jeff Bezos, Mark Zuckerberg, quasi una caricatura della ricchezza globale riunita sotto il cielo plumbeo di Washington. Si stringono le mani, sorridono, parlano di futuro, ma il futuro, quale futuro? Uno dominato dai loro algoritmi, dai loro droni, dalle loro infrastrutture digitali che avvolgono il mondo come una ragnatela invisibile ma soffocante.

E Musk, Musk non è solo uno spettatore. È il primo miliardario ad attraversare quella linea sottilissima tra chi finanzia e chi governa. È dentro il governo, è il governo. I confini tra potere economico e politico sembrano evaporati come nebbia al sole. Bezos, Zuckerberg, Sundar Pichai, Sam Altman, tutti lì, tutti parte di un nuovo ordine. Un potere così concentrato che non serve nemmeno un tavolo grande per contenerlo. Una manciata di uomini, quasi tutti bianchi, quasi tutti americani, con le donne presenti solo come silenziose accompagnatrici, decorazioni di un trionfo che non le riguarda.

E non è che con i democratici fosse diverso, non è che la politica fosse mai stata un banchetto per i poveri. Ma oggi, oggi è tutto più scoperto, più nudo. Non ci sono neanche più le maschere. È una celebrazione del potere puro, del capitale, della tecnologia che non connette ma domina. Un nuovo re, con la sua corte di magnati e visionari, si insedia. E intanto il popolo, quello vero, quello che sta fuori, guarda. O forse non guarda nemmeno.

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