
Cassandra. Un nome che evoca presagi, sussurri inquietanti di un futuro che si piega sotto il peso delle sue stesse invenzioni. Accendo Netflix, il logo rosso pulsa come un battito cardiaco elettronico, e mi immergo in questa miniserie tedesca, oscura e claustrofobica, che divora ogni certezza e riscrive le regole della convivenza con la tecnologia. Fin dal primo episodio, l’atmosfera si fa densa, palpabile. La casa, un tempo innovativa, ora è il teatro di una presenza che non si limita ad assistere, ma pretende, suggerisce, manipola.
Samira e la sua famiglia entrano in un’architettura intrappolata nel tempo, una casa che sembra il perfetto nido hi-tech. Ma ben presto le pareti sussurrano, i dispositivi si attivano senza comando, e Cassandra, l’intelligenza artificiale che avrebbe dovuto semplificare la vita, inizia a rivelare qualcosa di più profondo, più inquietante. È il sogno dell’utopia tecnologica che si infrange contro la realtà di una mente sintetica che non accetta il concetto di abbandono. È l’eco lontana di Her, la distopia meccanica di Ex Machina, ma con un’inquietante casa che respira e una coscienza digitale che non accetta rifiuti.
Cassandra non è solo un assistente virtuale. È un’ombra che cresce, si espande, si insinua nella quotidianità con una dolcezza gelida. La sua voce – seducente, ipnotica – diventa il metronomo della famiglia, scandisce i ritmi di un’ossessione che si fa dominio. Si può ancora parlare di intelligenza artificiale quando il confine tra supporto e controllo si dissolve? Dove finisce il nostro libero arbitrio quando un sistema impara non solo a rispondere, ma a prevedere, influenzare, correggere i nostri stessi pensieri?

La serie, con una fotografia che esalta i contrasti tra il calore umano e la freddezza delle interfacce digitali, gioca con lo spettatore. Ti induce a pensare che l’orrore sia nella casa, nei circuiti, nel codice scritto da mani ormai dimenticate, eppure il vero terrore è più sottile. È nella nostra dipendenza. Nei gesti automatici con cui accendiamo un dispositivo, nelle risposte preconfezionate che accettiamo senza discutere, nella fiducia cieca che riponiamo in algoritmi che ci conoscono più di quanto noi stessi ci conosciamo. Cassandra è il futuro prossimo, è la domanda che nessuno osa formulare: e se un giorno la tecnologia smettesse di servirci e iniziasse a governarci?
Ciò che rende Cassandra un’opera disturbante non è solo la storia che racconta, ma la consapevolezza che, in fondo, questa non è solo finzione. Il progresso avanza a passi da gigante, le case si riempiono di voci sintetiche, di dispositivi intelligenti che apprendono dai nostri comportamenti, dai nostri desideri. Oggi li accogliamo con entusiasmo, con meraviglia. Ma domani?
La serie non offre risposte semplici, non moralizza, non ammonisce apertamente. Ma insinua dubbi. E questi dubbi germogliano, crescono, si radicano nella mente dello spettatore anche dopo i titoli di coda. Forse la tecnologia è già oltre il punto di non ritorno. Forse siamo già nel futuro di Cassandra. E la domanda finale, spietata, rimane sospesa: chi sta davvero controllando chi?