Ci sono date che brillano, che si alzano come fari nella nebbia del tempo, segni impressi nel calendario e nella memoria. Il 6 gennaio è una di quelle. L’Epifania. La manifestazione (ἐπιφαίνω). Gesù bambino, Dio che si fa carne, mostrato al mondo. I magi che arrivano con i loro doni carichi di significati simbolici – oro per la regalità, incenso per la divinità, mirra per la mortalità – e il mondo intero che si inchina davanti al mistero dell’umano e del divino intrecciati in un corpo. È un racconto che affonda nella teologia e nella poesia, ma si perde anche nella polvere delle strade antiche e nelle tradizioni di un popolo.
E poi, ecco, c’è la Befana. La vecchia con la scopa, logora e affaticata, che porta dolci o carbone, giudicando il merito e la colpa, il bene e il male. È folclore, certo, ma è anche qualcosa di più. C’è il senso di un tempo che si rinnova, che spazza via l’anno vecchio con la scopa di una vecchia strega benevola. È Diana che ritorna, la dea della natura e del ciclo della vita, travestita con il cappuccio di una saggezza antica. È il pagano che si nasconde sotto il cristiano, come il carbone che si cela sotto i dolci. Perché non c’è manifestazione senza una qualche ombra, non c’è luce che non lasci dietro di sé una scia di mistero.
Dodici giorni dal solstizio d’inverno, dodici come un numero che ritorna, tra apostoli, mesi e segni dello zodiaco. Dodici giorni per transitare da una nascita che è promessa a una manifestazione che è rivelazione. Ma a chi? Ai magi, certo, stranieri in una terra lontana, simboli di un mondo che guarda al mistero con occhi spalancati e forse increduli. E a noi? Forse anche a noi. Perché ogni 6 gennaio non è solo la festa di un bambino che viene mostrato, ma la possibilità che ognuno di noi si manifesti. Che si mostri per ciò che è, senza maschere e senza veli.
La Befana, con le sue calze cariche di simboli, ci ricorda che siamo tutti bambini, in attesa di un giudizio, ma anche di un dono. E l’Epifania, nella sua semplicità straordinaria, ci dice che non c’è bisogno di essere re per essere accolti davanti al mistero: basta essere. Forse è questo il significato più nascosto, quello che non si trova nei libri, ma si intuisce tra le righe. Un invito a guardare il mondo con lo stupore di chi arriva da lontano e scopre qualcosa di più grande. Una rivelazione. Un’occasione, forse.
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