Quarantacinque anni. Tanto è trascorso da quel 6 gennaio 1980. Eppure, sembra ieri. La mattina fredda, il rumore secco di spari, un uomo che si accascia sul volante. Piersanti Mattarella, il Presidente della Regione Siciliana, un uomo che voleva cambiare le regole del gioco, giace senza vita sotto gli occhi della moglie e dei figli.
E noi, oggi, siamo ancora qui, a fare i conti con il passato. Con una giustizia incompiuta. Con verità monche e ricordi che non smettono di bruciare. I mandanti, sì, li conosciamo: i boss della Cupola di Cosa nostra. Ma gli esecutori? Quei due uomini giovani, col volto da bravi ragazzi, li abbiamo lasciati scivolare via tra il fumo e il silenzio. Fino ad ora.
La Procura di Palermo riapre il fascicolo. Nuovi nomi, nuovi indizi, forse una verità che pulsa sotto la polvere. Due sospettati. Uomini di mafia, legati a doppio filo a quel sistema che Mattarella voleva smantellare. E allora la mente corre. Corre a quel tempo, a quella Sicilia, dove la politica era una terra di mezzo, un mercato di voti e favori. E lui, Piersanti, voleva dire basta.
Ma basta non si poteva dire. Non allora. Non in una terra dove il potere era cosa di pochi e il coraggio si pagava caro. “Un uomo solo,” lo chiamavano. Perché a sfidare i sistemi corrotti si resta soli. Isolati. E la mafia non perdona.
E noi? Noi che facciamo? Guardiamo indietro e ci sentiamo distanti, come se fosse un’altra epoca, un’altra storia. Ma non è così. La corruzione, il compromesso, il silenzio non sono fantasmi del passato. Sono veleni che respiriamo ancora, ogni giorno. Solo che adesso sono più eleganti, più sottili. Ma ci sono.
Riaprire il caso Mattarella significa riaprire un nervo scoperto. Significa ammettere che qualcosa non ha funzionato. Che la giustizia ha fallito. Significa guardare in faccia il mostro e chiederci: siamo pronti a combatterlo davvero? Perché la verità, quella vera, non è solo trovare i colpevoli. È capire cosa ha permesso loro di agire, di uccidere, di sparire nell’ombra. È ammettere che un sistema malato non si regge da solo: ha bisogno di complicità, di sguardi che si voltano, di coscienze che si piegano.
E allora il caso Mattarella non è solo storia. È il nostro presente. È la nostra responsabilità. Non possiamo più aspettare che qualcun altro faccia luce. La luce dobbiamo accenderla noi. Ogni giorno, in ogni scelta. Perché il buio, quello della mafia, quello della corruzione, si nutre della nostra indifferenza.
Forse stavolta la verità verrà a galla. Forse no. Ma c’è una cosa che possiamo fare, che dobbiamo fare: ricordare. Non dimenticare mai che un uomo ha pagato con la vita il suo sogno di un’Italia più giusta. E chiederci se, oggi, siamo all’altezza di quel sogno.
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