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America Latina…

America Latina è una tana. Non quella di un animale, non quella che accoglie, ma quella che inghiotte. La discesa comincia in silenzio, quasi senza accorgersene. Massimo Sisti, dentista, marito, padre, si muove dentro la vita con la calma di chi ha messo tutto in ordine. La sua villa, là fuori, nella periferia di Latina, è perfetta: mura intatte, tetto che non lascia filtrare né vento né pioggia. È una trappola.

Dentro quella casa, però, c’è una crepa, e si apre con una scoperta: una ragazzina, legata e imbavagliata, giù in cantina. È un evento così irreale che non si può credere accada davvero. Eppure accade. La bambina è là. E con lei si apre il varco: un buco che risucchia tutto, certezze, convinzioni, ruoli. Il padre amorevole si sbriciola, il dentista impeccabile si dissolve, l’uomo rimane nudo di fronte alla sua ombra.

Elio Germano, nel corpo e nella voce di Massimo, cammina su un filo che non c’è. Ogni respiro è un passo che traballa, che cede. Il suo volto è una mappa di crepe: c’è il timore di guardare oltre la superficie, c’è la rabbia di non riconoscersi, c’è la disperazione di chi scopre che il confine tra il fuori e il dentro non è mai esistito. La cantina è la coscienza. È l’angolo dove il rimosso si accumula e aspetta, paziente, che qualcuno accenda la luce.

I fratelli D’Innocenzo non dirigono, scavano. America Latina non è un thriller, non è un dramma psicologico, è un colpo dato nel buio, che rimbomba. Qui non ci sono risposte, non c’è un perché che tenga. C’è solo il viaggio, e ogni spettatore deve scendere nella propria cantina insieme a Massimo. La villa non è una casa: è un corpo. Dentro è deforme, storta, come la vita che pretende di contenere.

La fotografia è densa, carica, un dipinto che gocciola. I colori non svelano, nascondono. Il sonoro è il vero narratore: il respiro di Germano diventa una colonna sonora, un tamburo che batte, accelera, si rompe. Si sente la pressione nei timpani, il peso sui polmoni. Ogni rumore amplifica il vuoto.

Non è un film che si può spiegare, America Latina. È un’esperienza che lascia graffi. Esci dalla sala con il dubbio di non aver capito, ma con la certezza di aver sentito. I D’Innocenzo non chiedono di essere capiti: chiedono il coraggio di guardarsi dentro, di accettare che non c’è una forma perfetta per l’anima, né una maschera che possa contenerla per sempre. E se non ci riesci, pazienza: il buio è lì, aspetta. Prima o poi ci tornerai.

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